DETENZIONE DOMICILIARE E CONDANNATI ULTRASETTANTENNI
Corte Cost., 31 marzo 2021, n. 56
Nota a sentenza
Il commento alla sentenza sopra richiamata è stato pubblicato sul secondo numero del 2021 della Bimestrale de “Il sistema del Diritto Penale” diretta dal Dott. Angelo Salerno, magistrato ordinario.
Qui il link all’intera pubblicazione.
Corte Cost., 31 marzo 2021, sentenza n. 56
È stata depositata la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, L. 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui impedisce l’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare al condannato ultrasettantenne, il quale sia stato dichiarato recidivo ex art. 99 c.p..
LA QUESTIONE
Il Magistrato di Sorveglianza di Milano, con ordinanza del 20 marzo 2020, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, L. 26 luglio 1975, n. 354, con riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui dispone che il soggetto condannato di età superiore ai settant’anni, che abbia riportato condanne in precedenza con l’aggravante della recidiva, non possa beneficiare della misura alternativa della detenzione domiciliare prevista dalla norma censurata. In via subordinata, il rimettente ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, nella parte in cui prevede che il medesimo soggetto non possa usufruire del beneficio della detenzione domiciliare, salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, riferiti al caso concreto, dai quali emerga che la pericolosità del soggetto sia cessata o grandemente diminuita.
Nel caso di specie, il Magistrato di Sorveglianza di Milano si trovava a valutare l’istanza di detenzione domiciliare formulata personalmente dal condannato, il quale richiedeva di poter scontare la pena residua da espiare presso l’abitazione della moglie. L’istante, settantottenne, era stato precedentemente condannato con plurime sentenze per diversi reati di natura fallimentare e tributaria – applicata l’aggravante della recidiva – alla pena finale complessiva di quattordici anni e sette mesi di reclusione, di cui oltre tredici anni ancora da scontare. Il Magistrato, esaminata l’istanza, verificava che in applicazione del dettato normativo vigente avrebbe dovuto rigettarla, stante la preclusione derivante dal riconoscimento della recidiva nel corso del giudizio di merito.
Ad avviso del rimettente, tuttavia, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione della circostanza aggravante della recidiva – operabile solo a seguito di espressa contestazione della Procura e pertanto non in ragione di un meccanismo automatico – non esprimerebbe un giudizio di pericolosità maggiore del condannato, quanto invece una «valutazione di maggiore gravità del fatto commesso». Il giudizio in ordine alla gravità del fatto, che consente un aumento di pena in applicazione della circostanza di cui all’art. 99 c.p., in ogni caso viene adottato all’epoca del giudizio di merito, e non può considerarsi attuale rispetto alla presentazione di un’istanza in sede di esecuzione del trattamento sanzionatorio.
Ciò posto, il Magistrato di Sorveglianza riteneva che la disposizione censurata violasse i principi costituzionali di uguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.) in ragione dell’orientamento della Corte costituzionale secondo cui le presunzioni di carattere assoluto, arbitrarie e irrazionali, sono incompatibili con il dettato della Carta fondamentale. Inoltre, il rimettente affermava che sarebbe stato altresì violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in tema di proporzionalità della sanzione e di funzione rieducativa della pena.
Quanto alle presunzioni, e in particolare a quella di pericolosità del condannato con l’aggravante della recidiva, il Magistrato di Sorveglianza osservava che il meccanismo automatico prescritto dalla disposizione oggetto di censura non fosse compatibile con la necessaria valutazione, da effettuarsi in concreto nella fase esecutiva, circa la effettiva pericolosità del soggetto.
A tali censure di costituzionalità, si è opposta l’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, ad avviso della quale le questioni dovevano essere dichiarate manifestamente infondate, dapprima poiché la preclusione fissata dal legislatore sarebbe frutto di una scelta di natura discrezionale e non di un arbitrario automatismo, fondata su una prognosi negativa non irragionevole in ordine alla condotta futura del soggetto condannato; secondariamente poiché la norma stabilirebbe una presunzione di inidoneità della detenzione domiciliare, e non una presunzione assoluta di pericolosità dell’istante.
Al contrario, il condannato istante, costituito nel giudizio dinanzi alla Consulta, ha chiesto che le questioni di compatibilità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, L. 26 luglio 1975, n. 354 fossero dichiarate fondate, in quanto tale disposizione contrasterebbe con la presunzione relativa di incompatibilità dell’ultrasettantenne con il regime detentivo, in ragione di esigenze di carattere umanitario. Invero, la preclusione contenuta nella norma osterebbe alla concessione di una misura alternativa alla detenzione che, valutate le circostanze del caso concreto, meglio risponderebbe ai principi fondamentali in materia di ordinamento penitenziario. La lettera della legge impedirebbe una valutazione concreta e attuale della reale pericolosità del soggetto, nonché della adeguatezza e della meritevolezza di una misura detentiva meno afflittiva rispetto alla carcerazione. In ogni caso, la precedente valutazione operata dal giudice del merito sarebbe inadeguata, poiché risalente nel tempo e adottata con riferimento al parametro della gravità del fatto e non della pericolosità del condannato.
LA DECISIONE
La Corte ha dichiarato, con decisione assunta nella seduta del 9 marzo 2021 e con sentenza depositata in cancelleria in data 31 marzo 2021, l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, L. 26 luglio 1975, n. 354, limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale», ritenendo fondate le censure di costituzionalità sollevate dal Magistrato di Sorveglianza di Milano.
La disposizione censurata dispone genericamente che la reclusione, indipendentemente dalla durata complessiva o residua da espiare, possa essere espiata all’interno della propria abitazione o in altro luogo, qualora il condannato abbia superato il settantesimo anno di età.
La Corte costituzionale ha immediatamente osservato come tale norma preveda una disciplina più favorevole per questa categoria di condannati, e ciò in ragione della circostanza che, da un lato, il legislatore ritiene scemata la pericolosità sociale del condannato di tale età anagrafica all’uopo essendo sufficiente a contenerlo una misura detentiva domiciliare in luogo del carcere, dall’altro si presume troppo gravoso il carico di sofferenza discendente dalla detenzione all’interno di un istituto di pena con l’avanzare dell’età, che impedisce altresì alla persona di godere di cura e assistenza personalizzate.
La detenzione intramuraria, pertanto, appare non compatibile con il principio di umanità della pena.
La stessa Consulta fa menzione nel corpo motivazionale dell’art. 275, quarto comma, secondo periodo, del codice di rito, il quale condivide la medesima ratio della norma in analisi. Parallelamente, in materia di custodia cautelare, il legislatore prevede che non possa essere detenuto in carcere in forza di ordinanza custodiale il soggetto che abbia compiuto i settant’anni, salvo che ricorrano esigenze cautelari particolarmente intense, ritenendosi maggiormente confacente al caso di specie la misura degli arresti domiciliari.
Il favor nei confronti della esecuzione della pena presso il domicilio, tuttavia, non può considerarsi incondizionato, in quanto il comma 01 prescrive tre specifiche ipotesi di divieto di concessione della misura, ovvero tre cause ostative in presenza delle quali la favorevole presunzione di attenuata pericolosità del condannato viene a mancare.
Ciò premesso, l’iter argomentativo della Corte è proseguito facendo cenno alla circostanza che l’art. 47-ter, comma 01, L. 26 luglio 1975, n. 354 costituisce l’unica ipotesi all’interno dell’ordinamento penitenziario di preclusione assoluta alla concessione di benefici di qualsivoglia natura, derivante dalla mera dichiarazione di recidiva operata dal giudice in sentenza ai sensi di una qualunque delle forme previste dall’art. 99 c.p.. Invero, giova ricordare come il legislatore riconduca condizioni più gravose per l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, nonché per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e il loro giudizio di comparazione all’ipotesi peculiare di applicazione della recidiva reiterata ai sensi dell’art. 99, quarto comma, c.p., che comporta un consistente aumento di pena quando un soggetto, già recidivo, commette un ulteriore delitto non colposo.
La Corte costituzionale, nel corso dell’argomentazione, afferma in modo chiaro che il meccanismo preclusivo di cui si è dato conto presenta inequivocabilmente una anomalia di fondo. Ed invero, essa statuisce che «mentre soltanto la recidiva reiterata osta a una seconda concessione di una misura alternativa (e dunque anche alla concessione di tutte le ipotesi di detenzione domiciliare diverse da quella in esame), qui già la recidiva semplice di cui all’art. 99, primo comma, cod. pen. osta in radice alla detenzione domiciliare; e ciò proprio nei confronti di una categoria di detenuti – quelli ultrasettantenni – rispetto ai quali la vita carceraria risulta, in via generale, particolarmente gravosa».
A ciò si aggiunga che, ad avviso della Consulta, non coglie nel segno l’obiezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale ritiene che l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 99 c.p. in sede di giudizio di cognizione sarebbe indicativa di una condizione di maggiore pericolosità del condannato, accertata in concreto nel corso del processo. Tale argomentazione non persuade i giudici costituzionali, poiché la necessaria valutazione individualizzata, operata in concreto sul c.d. surplus di pericolosità soggettiva dal giudice di merito per applicare un aumento sanzionatorio in considerazione dell’accertata recidiva, non è attuale, né specificamente riferita all’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare.
La Corte costituzionale, altresì, osserva che la sentenza di condanna con l’aggravante della recidiva – ostativa alla concessione della misura alternativa – ben potrebbe collocarsi in un orizzonte temporale distante diversi anni dalla presentazione dell’istanza di detenzione domiciliare, così determinando l’impossibilità di prendere in considerazione alcuni importanti fattori, tra i quali si annoverano le modificazioni della personalità del condannato, il percorso rieducativo eventualmente intrapreso. A tal proposito, la stessa Consulta – con sentenza n. 183/2011 – aveva già affermato che «mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali», e ciò al fine di evidenziare come la magistratura di sorveglianza debba avere quale punto di riferimento la condotta e la personalità del condannato in epoca successiva al passaggio in giudicato della sentenza. In altri termini, il punto di vista del giudice di cognizione differisce radicalmente da quello del magistrato di sorveglianza, chiamato a valutare circa la possibilità di soluzioni alternative alla detenzione intramuraria.
All’esito di tale complesso percorso argomentativo, la Corte costituzionale ha riconosciuto che dalla disposizione censurata deriva un meccanismo automatico preclusivo della detenzione domiciliare, discendente da una valutazione operata in tempo remoto da un giudice avente peculiarità e competenze assai differenti rispetto a quelle proprie del giudizio in fase esecutiva. La Corte ha lapidariamente asserito, nella fase conclusiva, che la disposizione in commento è intrinsecamente irragionevole, soprattutto con riferimento ai principi di rieducazione del condannato e di umanità della pena e alla luce dell’orientamento ormai granitico della stessa che ritiene contrastanti con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. le preclusioni assolute di accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione.
Per tutte queste ragioni, la Corte costituzionale (relatore Dott. Francesco Viganò) in data 9 marzo 2020 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, della legge 26 luglio 1975, n. 354, limitatamente all’inciso «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale» e ha ritenuto assorbita la questione di legittimità costituzionale sollevata in via subordinata dal rimettente.
Da tale dichiarazione deriva la riespansione del tradizionale potere discrezionale in capo alla magistratura di sorveglianza di valutare, caso per caso, la meritevolezza della concessione della detenzione domiciliare al condannato ultrasettantenne, che abbia riportato condanne in precedenza con l’aggravante della recidiva, tenuto conto della eventuale residua pericolosità sociale dello stesso.